Dalla fine del mondo al cuore della cristianità. Da Buenos Aires a Roma col nome del poverello di Assisi. Le notazioni geografiche aiutano a comprendere il papato di Francesco e il suo magistero. Il 13 marzo 2013 dalla periferia dell’America Latina è stato chiamato a gestire il centro che rischiava di perdere l’appuntamento con la fedeltà al Vangelo e con la storia. Si è percepito da subito che Francesco aveva dalla sua parte la stima e l’incoraggiamento del predecessore, Benedetto XVI che, conoscendo l’ambiente vaticano, aveva ritenuto opportuno farsi da parte con lo storico gesto delle dimissioni.
Il pontificato di Francesco, letto con gli occhi evangelici, è stato una benedizione. Ha portato una ventata di aria fresca. Non solo per la sua capacità comunicativa e la forte empatia con il popolo di Dio, ma per aver toccato i nervi scoperti di una Chiesa che avrebbe potuto smarrire il respiro cattolico. Non è scontato, infatti, che in ambienti curiali ci sia la fede. Come non è detto che i professionisti del sacro credano nel Vangelo di Gesù. Per questo, Francesco ha insistito su alcuni cavalli di battaglia per convertire la Chiesa a Cristo.
In primo luogo, ha avanzato la richiesta di una «Chiesa in uscita», già presente nel documento programmatico Evangelii gaudium: «Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. (…) Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (n.49). Il luogo della fede è la vita, che scorre nelle strade del mondo. Il Signore Gesù si trova a suo agio più negli ambienti di vita ordinaria che nelle sacrestie e nello stantio di luoghi sacri lontani dall’umano. Ecco il senso di una Chiesa in uscita, buon Samaritano dell’umanità.
Un secondo aspetto del magistero di Francesco è la sinodalità. È stato il primo Papa del dopo Concilio a non avere partecipato fisicamente al Vaticano II, eppure è stato un Pontefice conciliare a tutto tondo. Ha insistito nel far vivere e attuare lo stile partecipativo. Il Sinodo dei vescovi sulla Chiesa sinodale ha sorpreso molti, perché ha aiutato le gerarchie a sentirsi parte di un processo e a far tesoro di una comunione che ha rimesso in moto le relazioni nella comunità cristiana. Ciascuno deve sperimentare l’ascolto e insieme occorre imparare a fare discernimento. In questo modo, Bergoglio ha messo all’angolo il clericalismo con tutte le sue deviazioni, compresa quella di aver sfornato laici clericali.
Un terzo tema identificativo degli anni di Francesco è il paradigma dell’ecologia integrale. La pubblicazione della Laudato si’ nel 2015 ha sdoganato l’argomento, facendolo diventare questione educativa condivisa e non solo sensibilità dell’ambientalismo o dei verdi in politica. L’ambiente è tema sociale e ogni ecologia che si rispetti sa custodire in seno le questioni relazionali, quelle sociali e quelle ambientali. Tale complessità sgombra il campo da semplificazioni ideologiche, da conoscenze frammentarie e isolate che egli ha chiamato «forma di ignoranza» se non sanno integrarsi in una «visione più ampia della realtà» (LS 138). L’ecologia integrale tiene insieme la preoccupazione per i cambiamenti climatici e il valore del lavoro, la salute e la biodiversità, la demografia e i poveri, la cultura dello scarto e la condivisione delle risorse della terra.
Un quarto punto su cui Francesco si è impegnato in prima persona è la pace. Si potrebbe declinare come la logica conseguenza della fraternità, così bene descritta nell’enciclica Fratelli tutti (2020). A lui dobbiamo la felice espressione di «terza guerra mondiale a pezzi», capace di descrivere la condizione paradossale dell’era globale di guerre combattute in regioni del mondo ma con un coinvolgimento di molti. Francesco si è ritagliato il ruolo di artigiano di pace in un tempo sempre più dominato da guerre feroci. Ucraina, Medio Oriente, Myanmar, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo… sono stati teatri di morte e tragedie immani. La sua disponibilità a fare da intermediario per rappacificare gli animi, deporre le armi e raggiungere la pace, è stata inarrestabile. Non v’è stato Angelus domenicale o udienza infrasettimanale in cui non abbia elevato un monito forte per la pace. Una cosa è certa: il Papa ha sofferto le guerre a ogni latitudine si presentassero.
Un ultimo aspetto è l’ostinazione con cui Francesco ha evangelizzato attraverso gesti e parole. Non si annuncia Cristo solo con discorsi, ma con segni concreti. Così alcune scelte fanno parte di un magistero non scritto e da custodire. Il primo viaggio in Italia è stato progettato a Lampedusa, a ricordare la tragedia dei migranti e a scongiurare il rischio di far diventare il Mediterraneo un cimitero. La riforma vaticana ha permesso a donne di raggiungere posti di responsabilità. La nomina di una suora a titolare del governatorato, con gravi impegni di gestione amministrativa, è la punta di un iceberg. Non si dimentichi che scelte così controcorrente portano con sé strascichi di risentimenti, tipici di ambienti monosessuali e talvolta affetti da misoginia. Altri gesti sono consegnati alla storia: il Giovedì Santo ha preferito lavare i piedi a detenuti e detenute piuttosto che a cardinali. La predilezione evangelica per i poveri è principio fondamentale della testimonianza cristiana. In carcere, a Rebibbia, ha anche aperto per la prima volta nella storia dei giubilei una quinta porta santa, oltre le quattro basiliche romane, associando plasticamente due grandi temi del suo ministero: l’opzione preferenziale per gli ultimi e la misericordia. Non va neppure trascurato l’impatto che avrà per il futuro della Chiesa la scelta di nominare cardinali provenienti da ogni parte del mondo, rompendo con sedi consolidate e abitudini stanche. Una Chiesa meno centralizzata e romanocentrica e più vicina alle periferie rappresenta un messaggio dirompente.
Francesco è stato un papa innamorato del Vangelo di Cristo. Le categorie di conservatore o rivoluzionario non sono in grado di racchiudere la forza esplosiva di un discepolo della Pasqua del Signore Gesù. Proprio per questo non ha mai rinunciato al dialogo con tutti, senza paura di perdere l’identità di apostolo e ha dimostrato mille piccole attenzioni verso le persone. Le ha cercate al telefono, è andato a trovarle in momenti di sofferenza, si è fatto vicino con profonda umanità. Chi non ricorda le chiamate quotidiane alla parrocchia martire di Gaza mentre qualcuno nel mondo rilanciava video farneticanti su un territorio trasformato in paradiso per ricchi? Francesco non ha neppure nascosto le sue fragilità fisiche e di temperamento. Non ha mostrato un papato potente. Gli anni in carrozzina sono lì a ricordarlo. Non ha occultato i lati umani e fragili della Chiesa. Tutto ciò per ragioni di fede: la salvezza è opera di Dio. Per questo, forse, il gesto più autorevole di sempre è quella ripetuta richiesta al popolo di Dio in ogni sacrosanta occasione: «Non dimenticatevi di pregare per me». Frase magisteriale. Bergoglio si è fidato del Cristo che lo ha chiamato. Si è anche affidato alla fede del popolo. Uomo di Dio e fratello. Per noi vescovo di Roma, con noi cristiano.
( da “La Provincia” di martedì 22 aprile 2025)